venerdì 27 gennaio 2017

Pace solidarietà e dialogo, le proposte di Papa Francesco al Corpo Diplomatico

Lunedì 9 gennaio 2017, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico, Papa Francesco ha indirizzato gli auguri del nuovo anno al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Alla numerosa assemblea di Ambasciatori e di Personalità del mondo politico ed ecclesiastico egli ha rivolto un discorso intenso, incentrato sul fondamentale tema della pace. Il tema è stato sviluppato nella dimensione religiosa, in relazione agli eventi storici e in rapporto con le problematiche sociali e politiche dei popoli e degli stati. Evidenziando le problematiche dei conflitti, dei migranti, delle giovani generazioni, della dignità delle persone, il Papa ha indicato i compiti della diplomazia e la necessità della solidarietà e del dialogo nelle relazioni internazionali. Riporto alcuni brani significativi del suo discorso recuperati dalla fonte pubblicata sul portale del Vaticano e dal video realizzato dal CTV.

DAL DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Cari Ambasciatori,
un secolo fa, il mondo si trovava nel pieno del primo conflitto mondiale. Una inutile strage, in cui nuove tecniche di combattimento disseminavano morte e causavano immani sofferenze alla popolazione civile inerme. Nel 1917, il volto del conflitto cambiò profondamente, acquisendo una fisionomia sempre più mondiale mentre si affacciavano all’orizzonte quei regimi totalitari che per lungo tempo sarebbero stati causa di laceranti divisioni. Cent’anni dopo, tante parti del mondo possono dire di aver beneficiato di periodi prolungati di pace, che hanno favorito opportunità di sviluppo economico e forme di benessere senza precedenti. Se per molti oggi la pace sembra, in qualche modo, un bene scontato, quasi un diritto acquisito a cui non si presta più molta attenzione, per troppi essa è ancora soltanto un lontano miraggio. Milioni di persone vivono tuttora al centro di conflitti insensati. Anche in luoghi un tempo considerati sicuri, si avverte un senso generale di paura. Siamo frequentemente sopraffatti da immagini di morte, dal dolore di innocenti che implorano aiuto e consolazione, dal lutto di chi piange una persona cara a causa dell’odio e della violenza, dal dramma dei profughi che sfuggono alla guerra o dei migranti che periscono tragicamente.
Vorrei perciò dedicare l’incontro odierno al tema della sicurezza e della pace, poiché nel clima di generale apprensione per il presente e d’incertezza e di angoscia per l’avvenire, nel quale ci troviamo immersi, ritengo importante rivolgere una parola di speranza, che indichi anche una prospettiva di cammino.
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In tale prospettiva esprimo il vivo convincimento che ogni espressione religiosa sia chiamata a promuovere la pace. L’ho potuto sperimentare in modo significativo nel corso della Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace, tenutasi ad Assisi nel settembre scorso, durante la quale i rappresentanti delle diverse religioni si sono trovati per «dar voce insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto», come pure nel corso della mia visita al Tempio Maggiore di Roma o alla Moschea di Baku.
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In pari tempo, è opportuno non dimenticare le molteplici opere, religiosamente ispirate, che concorrono, talvolta anche con il sacrificio dei martiri, all’edificazione del bene comune, attraverso l’educazione e l’assistenza, soprattutto nelle regioni più disagiate e nei teatri di conflitto. Tali opere contribuiscono alla pace e danno testimonianza di come si possa concretamente vivere e lavorare insieme, pur appartenendo a popoli, culture e tradizioni differenti, ogniqualvolta si colloca al centro delle proprie attività la dignità della persona umana.
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Al riguardo, accolgo con interesse l’iniziativa del Consiglio d’Europa sulla dimensione religiosa del dialogo interculturale, che lo scorso anno ha messo a tema il ruolo dell’educazione nella prevenzione della radicalizzazione che conduce al terrorismo e all’estremismo violento. Si tratta di un’opportunità per approfondire il contributo del fenomeno religioso e il ruolo dell’educazione a una vera pacificazione del tessuto sociale, necessaria per la convivenza in una società multiculturale.
In tal senso, desidero esprimere il convincimento che ogni autorità politica non debba limitarsi a garantire la sicurezza dei propri cittadini – concetto che può facilmente ricondursi ad un semplice “quieto vivere” – ma sia chiamata anche a farsi vera promotrice e operatrice di pace. La pace è una “virtù attiva”, che richiede l’impegno e la collaborazione di ogni singola persona e dell’intero corpo sociale nel suo insieme. Come osservava il Concilio Vaticano II, «la pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma è un edificio da costruirsi continuamente», tutelando il bene delle persone, rispettandone la dignità. Edificarla richiede anzitutto di rinunciare alla violenza nel rivendicare i propri diritti. Proprio a tale principio ho voluto dedicare il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2017, intitolato: «La nonviolenza: stile di una politica per la pace», per richiamare anzitutto come la nonviolenza sia uno stile politico, basato sul primato del diritto e della dignità di ogni persona.
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Sono convinto che per molti il Giubileo straordinario della Misericordia sia stata un’occasione particolarmente propizia anche per scoprire la «grande e positiva incidenza della misericordia come valore sociale». Ciascuno può così contribuire a dare vita ad «una cultura della misericordia, basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri: una cultura in cui nessuno guarda all’altro con indifferenza né gira lo sguardo quando vede la sofferenza dei fratelli». Solo così si potranno costruire società aperte e accoglienti verso gli stranieri e, nello stesso tempo, sicure e in pace al loro interno. Ciò è tanto più necessario nel tempo presente, in cui proseguono senza sosta in diverse parti del mondo ingenti flussi migratori. Penso in modo particolare ai numerosi profughi e rifugiati in alcune zone dell’Africa, nel Sudest asiatico e a quanti fuggono dalle zone di conflitto in Medio Oriente.
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Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione. Soprattutto non si può ridurre la drammatica crisi attuale ad un semplice conteggio numerico. I migranti sono persone, con nomi, storie, famiglie e non potrà mai esserci vera pace finché esisterà anche un solo essere umano che viene violato nella propria identità personale e ridotto ad una mera cifra statistica o ad oggetto di interesse economico.
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I bambini e i giovani sono il futuro, sono coloro per i quali si lavora e si costruisce. Non possono venire egoisticamente trascurati e dimenticati. Per tale ragione, come ho richiamato recentemente in una lettera inviata a tutti i Vescovi, ritengo prioritaria la difesa dei bambini, la cui innocenza è spesso spezzata sotto il peso dello sfruttamento, del lavoro clandestino e schiavo, della prostituzione o degli abusi degli adulti, dei banditi e dei mercanti di morte.
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La pace, invece, si conquista con la solidarietà. Da essa germoglia la volontà di dialogo e la collaborazione, che trova nella diplomazia uno strumento fondamentale. Nella prospettiva della misericordia e della solidarietà si colloca l’impegno convinto della Santa Sede e della Chiesa cattolica nello scongiurare i conflitti o nell’accompagnare processi di pace, di riconciliazione e di ricerca di soluzioni negoziali agli stessi. Rincuora poter vedere che alcuni tentativi intrapresi incontrano la buona volontà di tante persone che, da più parti, si adoperano attivamente e fattivamente per la pace.
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Cari Ambasciatori,
la pace è un dono, una sfida e un impegno. Un dono perché essa sgorga dal cuore stesso di Dio; una sfida perché è un bene che non è mai scontato e va continuamente conquistato; un impegno perché esige l’appassionata opera di ogni persona di buona volontà nel ricercarla e costruirla. Non c’è, dunque, vera pace se non a partire da una visione dell’uomo che sappia promuoverne lo sviluppo integrale, tenendo conto della sua dignità trascendente, poiché «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», come ricordava il beato Paolo VI. Questo è dunque il mio auspicio per l’anno appena iniziato: che possano crescere fra i nostri Paesi e i loro popoli le occasioni per lavorare insieme e costruire una pace autentica.



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